Il regista di matrimoni

“Io cerco una Principessa, non l’ho mai vista ma so che esiste: è prigioniera qui?”.
Così Franco Elica (Sergio Castellitto), regista di matrimoni protagonista del film, si rivolge ai cani a guardia del palazzo in cui vive Bona Gravina (Donatella Finocchiaro), figlia del Principe di Palagonia.
L’improbabile scena si svolge in una stanza totalmente vuota, con al centro Elica, circondato da cani: è evidente già dall’ambiente, dalle parole, dai nomi dei personaggi che ci troviamo in un ambito tutt’altro che realistico e in pieno sogno.

Anche semplici immagini, come quella dei pesci rossi nell’acquasantiera della chiesa, o dei ragazzi che saltano improvvisamente per strada dentro balle di iuta, hanno senso solo all’interno di una logica “altra” rispetto a quella diurna: la logica notturna, onirica che tutto rende possibile e che concilia contraddizioni di ogni sorta.
E’ in virtù di questa logica che ne Il regista di matrimoni si assiste ad una serie infinita di azioni apparentemente inconsulte da parte dei vari personaggi: Bona, dopo essersi recata nello studio di Elica, si rifugia, di colpo, sotto la sua scrivania; un carabiniere, dai toni kafkiani, risponde ad Elica, che gli chiede se è indagato, “ indagato, testimone, niente…”; il personaggio di Smamma (Gianni Cavina) compare per la prima volta, mentre fuma, camminando dentro l’acqua, proprio come un fantasma, e così via…

Anche la Sicilia in cui si svolge l’avventura di Elica ha in sé qualcosa di misterioso, di arcaico, di mitologico: lo stesso Bellocchio ha affermato che, pur essendo pieno di esterni, di mare, di cielo, di paesaggi sconfinati, di totali, il film è stato, in realtà, girato come in interno, dall’interno, dal buio verso la luce.
Proprio come fa il sogno che, da dentro, spinge per emergere, per farsi spazio, per rivelarsi. Il regista di matrimoni, come tutti i sogni che si rispettano, concentra e disperde, allo stesso tempo, i desideri e le paure del sognatore.
Elica, alter-ego di Bellocchio, vede i suoi peggiori incubi incarnati in Orazio Smamma, non a caso regista di un significativo “La madre di Giuda”: Smamma, tra l’altro, grida in faccia al collega che il mondo dell’oratorio non c’è più, così come non c’è più una Lucia Mondella.

In un’altra sequenza del film, Smamma esplode in una vera e propria crisi, autodefinendosi pazzo patentato, e urlando che non esiste l’amore, non esiste la bontà, esiste solo la rabbia. Insomma, con Smamma si regredisce, in termini psicologici, fino ad arrivare a I pugni in tasca (1965).
Fatto fuori, letteralmente, l’ormai intollerabile alter-ego, Elica persegue, ostinato, il proprio sogno d’amore e decide di salvare Bona da un matrimonio di convenienza.
La ragazza, con i suoi discorsi e il suo atteggiamento, si comporta come una principessa delle fiabe: dice ad Elica di essersi “risvegliata” quando ha saputo che lui stava girando un film sui Promessi Sposi, libro che lei aveva tanto amato da bambina.
Per compiacerlo ulteriormente, afferma che, da piccola, immaginava che Lucia, alla fine, avrebbe sposato l’Innominato, “un uomo maturo, d’esperienza”. E aggiunge, rivolta a lui: “Ho capito che un uomo così coraggioso, così fragile, non poteva essere l’uomo che Micetti (Donadoni) mi ha raccontato”.
A questo punto, Elica si sottopone a tutte le prove canoniche necessarie per liberare e conquistare la Bella della fiaba: il confronto con il padre di lei (ulteriore alter ego, insieme al regista di matrimoni Baiocco, del protagonista Elica), il tentativo di raggiungerla nel convento in cui si è ritirata, la fuga prima delle nozze stabilite. Il film termina, naturalmente, con un lieto fine, inficiato, però, dagli incubi di Elica, che immagina che il Principe di Gravina uccida il giovane sposo.

In definitiva, raccontare la trama di Il regista di matrimoni è, un po’, come raccontare un sogno altrui, un’impresa difficile quanto quella del protagonista, o raccontare una fiaba, con l’immancabile morale, utile a tutti. Come ha lasciato intendere Bellocchio stesso, durante la conferenza stampa, il protagonista della storia capisce che la chiave di tutto è nel rapporto con la donna: è lì il punto di scontro, è lì che si può vincere o perdere.
Chi, come Smamma o il promesso sposo (ambedue gridano “mamma!”, prima di morire), resta attaccato alla donna-madre, non ha possibilità di evolversi e vivere, chi accetta la sfida di cercare e conquistare l’Altro da Sé rischia di essere felice.

A volte leggere un film di un regista che si vuole autore, alla luce delle pellicole più recenti dello stesso non è solo una riaffermazione statica e convenzionale delle logiche da Politique des auteurs, ma più semplicemente e profondamente, un modo, perfino arbitrario, di semplificarsi le cose e di aprire il film stesso ad un ventaglio di intepretazioni dei suoi significati possibili quasi senza fine. Ebbene Il regista di matrimoni lo merita, per la qualità e quantità di regia che Bellocchio mette in mostra in tutto lo svolgimento della pellicola, ma soprattutto perché Il regista di matrimoni è appunto un’opera di assoluta apertura semantica, di qui l’appellativo di onirico che già fa capolino nelle primissime recensioni disponibili sul web e sulla carta stampata. Ma forse più che di onirico in senso stretto, a proposito di Bellocchio si dovrebbe parlare più propriamente di psicanalitico, non solo per il sodalizio storico con Fagioli, ma anche e soprattutto perché Bellocchio è, insieme a Lynch e a Cronenberg, il regista vivente che con maggiore frequenza si avvicina alle speculazioni psicanalitiche come grammatica di simboli, come trama di segni il cui codice non è ma dato deifinitivamente. Sono stato oscuro per dire un po’ tutto in poche righe, lo so. Vado a specificare meglio la mia terminologia: quando si parla di psicanalisi, non si intende tanto una disciplina che abbia a che fare con la medicina, e nemmeno con un’interpretazione scientistica di una teoresi vuoi freudiana, vuoi junghiana, lacaniana etc della realtà come contenuto manifesto di un film. Il cinema ha sempre usato la grammatica di simboli che la psicanalisi metteva a disposizione in primis come linguaggio, iconografia, abbandonando ogni pretesa terapeutica. Il cinema diventava un sogno interpretato e narrato secondo un canone interpretativo logico-razionale. Da questo punto di vista il cinema degli anni sessanta, la Nouvelle Vague, hanno sancito una profonda rottura nel rapporto tra cinema e psicanalisi. Non si cercava più di riprodurre logicamente i simboli di un sogno, ma si cercava di riprodurre la logica del sogno, contrapposta alla razionalità della veglia. Bellocchio su questa tipologia di cinema si è formato, su una razionalità visuale che non è della coscienza bensì dell’inconscio nelle sue manifestazioni per così dire più libere, dalla libera associazione al sogno. Ma anche questa opzione cinematografica alla fine ha tradotto l’onirismo in una narrazione, anzi in una logica rappresentativa, benché meno esplicitamente articolata rispetto alla precedente. Mi spiego meglio, anche se un po’ in soldoni: Bellocchio deriva il suo atteggiamento verso la psicanalisi e la logica implicita del sogno soprattutto da Lacan, ma in Lacan il sogno in sé non ha alcuna logica, è solo un magma di simboli del tutto scoordinati e irrelati che cercano disperatamente di giustapporsi (uno dei più famosi paradossi lacaniani era quello di affermare che l’inconscio non esistesse, se non nella ricostruzione della coscienza a posteriori, da svegli). Il sogno diventa la sua ricostruzione e interpretazione e si ha un bel dire che, con piani sequenza, falsi raccordi etc, il fuoricampo(della mente) prevale su ciò che rimane in campo. Uno spettatore colmerà comunque i buchi e caverà fuori dal film più antinarrativo uno straccio di trama e dei significati coordinati ed espliciti. Bellocchio, cineasta sperimentatore degli anni Sessanta e Settanta, ha vissuto lo scacco di una possibile totale liberazione dello sguardo da ogni opzione linguistica e a questo punto è tornato volutamente all’interno di una drammaturgia coerente, ma per renderla ambivalente, per così dire, dall’interno. Sin da l’Ora di religione i film di Bellocchio si situano in una sorta di zona di confine intercettata in fase di sceneggiatura da una sorta di convenzionale doppia trama. Abbiamo, chiamiamola così, una trama ufficiale, una narrazione di eventi concatenati che si svolge in maniera abbastanza lineare almeno a livello di scrittura sceneggiatoria. A questa trama ufficiale si abbina una sorta di dimensione allucinatoria, vissuta dal protagonista, non completamente reale (nella logica del film) e non completamente irreale. Tutto molto semplice, addirittura già visto. Ma questo meccanismo combinatorio realtà-allucinazione serve a Bellocchio per confondere non tanto i piani, ma i confini tra i piani. A questo punto il regno dell’immaginazione, dell’onirico non puro, ma ricostruito dal protagonista delle pellicole di Bellocchio (Castellitto ne l’Ora di religione e qui, Maya Sansa in Buongiorno notte), non tracima nella realtà, sconvolgendola, ma comunque interviene come correttore di rotta, suggerisce piste intepretative inaspettate. Non abbiamo una rivoluzionaria immaginazione al potere, ma un’immaginazione contrapposta al potere, che ne diventa il necessario contraltare per evitare al potere stesso (fosse anche il potere del singolo su se stesso), di ossificarsi. Ne L’ora di religione “rece/oradireligione.htm”avevamo l’artista Ernesto Picciafuoco che, dopo aver tentato di sfidare apertamente il convitato di pietra conte Bulla, distruggeva nel chiuso del suo computer l’Altare della Patria, simbolo di un potere invadente e stupido nella sua retorica, e poteva accettare perfino il ruolo di autorità paterna. In Buongiorno notte più tragicamente avevamo una brigatista, rinchiusa nel gioco della storia da cui nessuno (brigatisti, poliziotti, politici) poteva uscire, che, almeno nel sogno, prospettava a sé stessa, a Moro, e contro la storia come meccanismo, un finale differente da quello che la storia stessa poi ci ha consegnato. Moro liberato, libero di passeggiare per le vie di Roma, bellissima anche nella pioggia. Qui, in questo ideale punto di arrivo di una trilogia (o forse di una pentalogia cominciata con il Principe di Homburg) abbiamo il gioco più scoperto ed esplicitamente autorappresentativo (non autobiografico). Castellitto non è un alter ego di Bellocchio individuo, quanto di Bellocchio regista, in penombra rispetto alle sue stesse messe in scena, che entra in scena nel suo stesso sogno per modificarne le coordinate, il significato, soprattutto lo svolgimento. Guardiamo la prima sequenza del film. Un matrimonio, Castellitto-Franco Elica in penombra ad assistere e poi a girare alcune sequenze di quella che si rivela essere la cerimonia nuziale della figlia. Siamo di fronte ad una doppia sconfitta del regista, che, come demiurgo onnipotente razionale (colui che costruisce il reale), non ha impedito il matrimonio della figlia, ma ha solo potuto dare un minimo di lustro grafico ad una cerimonia spenta ed esangue, come rivoluzionario, si è completamente estraniato dalla scena, pensando di poterne stare fuori, e così al posto dell’immaginazione al potere è diventato solo un gestore del potere rappresentativo più convenzionale delle immagini. L’immaginare film nel successivo svolgimento della trama, con tanto di doppi (Orazio Smamma-Gianni Cavina, Baiocco) diventa la possibilità di interagire positivamente con la realtà e modificare un plot canonico, quello de “I Promessi Sposi”, riletti alla rovescia (stavolta è più che giusto che il matrimonio “non s’abbia da fare”). Entrando nella scena del film da girare come attore protagonista, o meglio come attore regista, al servizio di un ennesimo e più nascosto regista occulto (il padre archetipico Sami Frey), forse non del tutto malevolo, Castellitto capisce di non poter uscire dal flusso linguistico delle immagini e della loro concatenazione razionale, ma capisce anche di poterle aprire ad ulteriori svolgimenti dall’interno e impedisce un rituale ripettitivo e nevrotico. La psicanalisi a questo punto, nelle sue accezioni lacaniane, ma anche junghiane (la fiaba, l’archetipo da raccontare per poterne modificare le dinamiche profonde), non identifica meccanismi di funzionamento rigidi della psiche, ma è un metodo che consente al singolo di interagire con la sua sfera profonda e magmatica, quindi apre a nuove visioni della realtà praticabili, e quindi modifica la percezione del piano di realtà, senza pretendere di uscire dalle costruzioni razionali della coscienza. Elica (nel nome un’elica che gira su sé stessa, evocazione del dinamismo che si riflette nei comportamenti di Castellitto), riscrive gli eventi tramite la regia, consentendo agli eventi di aprirsi al futuro, all’imprevedibilità. Il finale è tutto all’insegna di un tempo che scorre tra orologi che ripartono e treni. Modificazioni spaziali e temporali. E il cinema torna ad essere autonalisi di un regista che sa di essere nel flusso e nella scena e accetta questa verità con serenità.

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