FESTA DI SANTA LUCIA
In Cefalù vi è una leggenda sulla Santa che non ha altri riscontri né a Siracusa, patria della Vergine, né nel resto dell’ Isola. La leggenda si lega a quell’usanza, secondo la quale, il 13 di Dicembre nel giorno in cui si celebra la festa liturgica ci si debba astenere dal lavoro. È un vero rito, accettazione di una liturgia non canonicamente consacrata.
Il 13 Dicembre a Cefalù la festa ha avuto sempre un grande concorso di popolo, di tante messe celebrate nel corso della giornata. È abitudine, del popolo, ritornare dalla contrada Santa Lucia con un ramoscello di muttidda (mirtillo) una pianta che cresce in modo straordinario nella zona.
Questa particolare specie di mirtillo, secondo i più, ha un significato simbolico. Infatti le bacche rotondeggianti richiamano la forma degli occhi e quindi della Vergine Siracusana.
Il ritornare con quel ramoscello è quasi la prova provata di essere stati lì. Un rito antico che si perpetua da tempo immemorabile quando i cefalutani indicavano la contrada con la denominazione Grugno che era il cognome di una famiglia che della zona ne ebbe il possesso e di quella famiglia alcuni componenti, specialmente nei sec. XVII e XVIII, ricoprirono cariche amministrative nella Città.
La leggenda, dunque, di cui nella tradizione cefalutana. appartiene al genere miracolistico e ammonitorio.
Destinatario dell’evento e protagonista un laborioso calzolaio il quale, si racconta, protrasse il suo lavoro oltre le ore consentile e, quindi, cadde nella violazione di quel divieto che imponeva l’asternersi dal lavoro per rispetto a Santa Lucia.
Venne immediato il segno del cielo: quell’umile calzolaio, ostinato lavoratore ebbe una fitta all’occhio da cui sgorgò un fiotto di sangue; poi dalla scarpa su cui stava lavorando apparvero gocce di sangue ogni qual volta che il calzolaio, il cui nome era Wncenzo, usava la lesina per far il buco nella suola.
Il perdurare del fenomeno convinse l’uomo che palese era il segno divino e che doveva smettere il lavoro
I fatti accaddero nel 1645, sull’episodio si intentò un processo con relative testimonianze. Era Vescovo in quel tempo Marco Antonio Gussio ( 1644-1650).
Santa Lucia, serba sani gli occhi dei suoi devoti.
Pitrè
Festa di luce che, prima dell’introduzione del calendario gregoriano(1582), cadeva in prossimità del solstizio d’inverno, probabilmente retaggio di antichi culti precristiani che celebravano, in quei giorni, la luce.
La figura Lucia presenta molte affinità con quella di Artemide, divinità della religione greca, dea della caccia, degli animali selvatici, della foresta e dei campi coltivati; è anche la dea delle iniziazioni femminili, protettrice della verginità e della pudicizia.
Artemide Figlia di Zeus e Latona e sorella gemella di Apollo, appena nata, aiuta prodigiosamente la madre a dare alla luce il fratello. Artemide è anche la protettrice delle partorienti ed è levatrice di rinascita verso la luce.
Ad Artemide corrisponde, nell’Olimpo latino, Diana, il cui etimo riconduce a dies, in latino, giorno, e la dea è anche la protettrice della luce diurna.
La Lucia cristiana fu una fanciulla integerrima e divenne protettrice della vista perché, secondo tradizioni non suffragate da documenti, le furono cavati gli occhi; probabilmente è protettrice della vista perché l’etimologia del suo nome, Lux, la ricollega alla luce.
A Palermo, secondo la tradizione, la Santa liberò la città da una terribile carestia, facendo arrivare al porto un provvidenziale carico di grano. Allora, i palermitani decisero di bollirlo e di condirlo con dell’olio di oliva : nacque così la cuccia e l’uso di astenersi, in questo giorno, dal pane e dalla pasta.
Dal riso appena condito all’arancina in tutte le sue varianti il passo sembra lungo, ma, in Sicilia, tutto non è come appare! Dal quasi digiuno all’abbuffata di cuccia e di arancine il passo appare azzardato, ma, in Sicilia, nulla è come sembra!
Nell’isola cara agli dei, arrivarono, infatti, molti popoli, che nel suo ventre, fertile di bellezza, fecondarono svariate tradizioni, che, ancor oggi, vengono celebrate nel sacro altare della tavola.
Arrivarono gli arabi e introdussero l’uso di consumare riso appallottolato sul palmo della mano, condito con zafferano e carne di agnello; poi arrivarono i Normanni, che, spinti dall’esigenza di avere un cibo da consumare durante le giornate di caccia, perfezionarono l’arancina.
L’arancina, sacrificio, consumato in tavole impregnate di odore di frittura, sono il simbolo compiuto del sincretismo culturale della nostra terra, dei suoi rimaneggiamenti, che hanno avuto la funzione di ricontestualizzare, culti, cibi e usi, senza buttar via nulla…un’autarchia tutta femminile!
Anche a Cefalù vi è il costume di consumare arancine e anche il culto della Santa della Luce è particolarmente sentito tanto che, in passato, il giorno a Lei dedicato era un giorno in cui ci si doveva astenere dal lavoro, per onorare la Santa.
Nel 1685, a Cefalù, in contrada Grugno, fu edificata una chiesa a Lucia dedicata, essendo vescovo della città fra Matteo Orlando.
Nel tempo, la contrada, da Grugno ( nome di una famiglia, antica proprietaria di quel terreno), venne ribattezzata Santa Lucia e, negli anni 50, in quella contrada, Pantheon di tutte le bellezze, sorse il Club Mediterranee.
La chiesa, per molti anni, fu spettatrice, silenziosamente chiusa nel suo fascinoso riserbo, delle magie voluttuose di quel Villaggio, paradiso di caduche e mai paghe ricerche.
E’ consuetudine, a Cefalù, il 13 dicembre, recarsi in pellegrinaggio, in questa chiesa.
Lo si fa, andando in processione dal Lungomare, dopo aver preparato il ragù per le arancine; lo si fa per devozione alla Santa; lo si fa per devozione al miracolo del sanguinamento della scarpa del calzolaio cefaludese Vincenzo Combi; lo si fa per andare a raccoglie…
Daniela Mendola